Avevo sei anni, quattro mesi e otto giorni, quando toccò
anche a me andare a scuola. In verità la mia innata curiosità e voglia di
conoscenza mi aveva portato già a quattro anni da autodidatta, ad imparare a
leggere, scrivere e a far di conto. A
quei tempi se non eri ricco non andavi in asilo e la mia era una
famiglia piuttosto modesta, di operai.
Quel primo di ottobre del 1959, dopo una preparazione
meticolosa che pretese la mia sveglia alle sei e mezza, mia madre mi prese per
mano e mi accompagnò a scuola. La campanella alle otto e mezza in punto suonò.
Entrammo, io ero letteralmente aggrappato alla mano di mia madre.

- Roberto vedi tutti gli altri
bambini? - disse mia madre - Funziona così ti devi convincere! - La mia
risposta rimase negli annali della mia famiglia, per anni a casa ogni tanto, mi
prendevano in giro ricordandomela. - Mamma io non posso convincermi! - La mia
enorme disperazione, il mio piangere e dibattermi come un ossesso, costrinse alla
resa mia madre che dovette riportarmi a casa, avevo vinto la battaglia, ma non
certo la guerra; quella, l'avevo solo rimandato
di un giorno e me ne resi reso conto a mie spese a pranzo, quando mio
padre tornò a casa dal lavoro.
Mia madre gli raccontò tutto, lui
mi guardò, non certo con dolcezza, mi
mollò una sberla di quelle che ti fanno fare una non proprio elegante piroetta,
e mi disse: - Domani ti accompagnerò io - con un tono che non prometteva nulla
di buono e che non ammetteva repliche.
Quella notte la passai in bianco, ma avevo gli incubi anche da
sveglio, mi vedevo a scuola, rapito e imprigionato, gli insegnanti, i bidelli, si rivelavano tanti
diavoli mascherati che mi picchiavano, mi torturavano e mi deridevano... e così
venne l'alba!
Papà disse a mamma di
prepararmi. Camicia e pantaloncini corti,
sopra un grembiulino nero un collettino bianco con un nastro azzurro che mi
faceva sentire ridicolo: ero pronto per il grande sacrificio!
La scuola era a meno di cento metri da casa; arrivammo
subito. Entrammo che già mi tremavano le gambe: scale, tre piani a piedi.
No, mi dicevo: - coraggio,il
mio papà non mi sta portando in prigione, è la scuola - ma io sapevo già leggere e scrivere ed allora
perché dovevo andare!
Questi pensieri affollavano la
mia mente quando arrivammo in classe.
Il professore era già in aula e
appena vide mio padre lo salutò calorosamente; era stato in passato l'insegnante
di mio fratello più grande e quindi conosceva già mio padre, che dopo i saluti
di rito disse: - Professore Schirò, le ho portato il mio figliolo più piccolo; è
bravo e intelligente, da solo ha già imparato
a leggere ed a scrivere, ed è pure un bambino ubbidiente, ma, se dovesse
fare qualche monelleria e se lo merita, dategliela pure qualche scappellotto, -
poi guardò me e continuò - se tornando a casa, per caso, venissi a raccontarmi
che il professore ti ha picchiato, ricordati che ti darò il resto! -
Terrorizzato e con la testa
china, lasciai la mano di mio padre e andai a prendere posto in un banco, non
mi restava che accettare la condanna...